la mia prima colazione si risolve in una tazza di earl grey con un goccio di limone
(tè al bergamotto: bergamotto alto o basso?)
e uno yogurt alla frutta con pochi cereali.
(la mia seconda colazione in periodo di RAC – i.e., Regime Alimentare Controllato –
si dissolve in un caffè lungo in tazza grande, e una concetta sigaretta).
stamattina mentre il tè si raffreddava e non avevo fretta, ho finito di leggere il capitolo che ieri notte
era rimasto a metà,
e che copioincollo, anzi ricopio (e non incollo un bel niente)
perchè mi ha fatto pensare ai colori preferiti dei miei soggetti preferiti
(e.g.: il rosa della miacuginapreferita, il turchese della miamammapreferita, il rosso del miobalconepreferito, l’arancione della miaamicapreferita, il blu del miosnobpreferito and so on)
e perchè il mio colore è l’arancione, e lo stesso arancione di Des Esseintes ultimo dandy e primo nichilista
(del resto, dopo la dipartita di lucrezio il dente del giudizio, mi colloco in un flusso di decadentismo
anche io,
e mi canticchio la decade di decadenza dei bluvertighi,
e spero di precipitare in uno spleen, purchè sia onomatopeico e tintillante).
eccolo,
“à rebours” (1884) – j.-k. huysmans,
(capitolo primo)
“Scartati questi colori, non ne rimanevano che tre: il rosso, l’arancione, il giallo.
A tutti preferiva l’arancione. Trovava così in se stesso conferma ad una teoria ch’egli dichiarava pressoché matematicamente esatta: che una armonia, una rispondenza esiste tra la natura sensuale d’un vero artista ed il colore che i suoi occhi apprezzano meglio e cui sono più sensibili.
Trascurando infatti la grande maggioranza degli uomini che han la retina così grossolana da non apprezzare né la cadenza propria a ogni colore né l’arcano fascino delle gradazioni e delle sfumature; trascurando del pari l’occhio del borghese, insensibile alla pompa e al vittorioso squillo dei toni alti e vibranti; non prendendo in considerazione che gli individui dalla pupilla squisita, educata dalla letteratura e dall’arte, gli pareva fuori dubbio che l’occhio di quello fra di essi che sogna l’ideale, che reclama delle illusioni, che implora dei veli nei tramonti, è di solito accarezzato dall’azzurro e dai colori che ne derivano, quale il malva, il lilla, il grigio perla: purché tuttavia essi restino tenui e non varchino il limite oltre il quale divengon altri, si trasformano in violetti puri, in meri grigi.
Quelli invece che procedono a passo di carica, i pletorici, i bei sanguigni, i solidi maschi che disdegnano i preludi e gli intermezzi e s’avventano perdendo subito la testa, per la maggior parte costoro applaudono ai luccichii sfacciati dei gialli e dei rossi, ai colpi di tamburo dei cinabri e dei cromi che li accecano e li sborniano.
Insomma, l’occhio delle persone deboli e nervose che han bisogno, per risvegliare l’appetito, di cibi affumicati o piccanti; l’occhio di chi è sovreccitato ed estenuato predilige, quasi sempre, l’arancione: questo colore dagli splendori fittizi, dalle febbri acide.
La scelta di Des Esseintes non lasciava dunque adito a dubbi; ma innegabili difficoltà si presentavano ancora. Se il rosso e il giallo s’esaltano alla luce, lo stesso non sempre si può dire del loro composto, l’arancione: che si tramuta ben spesso in rosso-nasturzio, in rosso-fuoco.
Alla luce delle candele studiò tutte le sue gradazioni e ne scoperse una che gli parve non dovesse subire squilibri ed eludere la sua attesa.
Ottenuto questo primo risultato, si propose di scartare, per quanto possibile – nell’addobbo almeno dello studio – stoffe e tappeti orientali, diventati, oggidì che i mercanti arricchiti se li procurano con poca spesa negli empori di novità, così stucchevoli e così ordinari. Tutto considerato, decise di far fasciare le pareti come si rilegano i libri: di marocchino a grana grossa schiacciata, con pelle del Capo resa lustra da robuste lastre di acciaio sotto un torchio pesante.
Quando le pareti furono addobbate, fece dipingere i tondini e la cimasa in indaco carico, in un indaco laccato simile a quello che si adopera per i pannelli delle carrozze; e la volta, un po’ arrotondata, rivestita del pari di marocchino, schiuse, come un’immensa finestra tonda incastonata nella sua buccia d’arancio, un cerchio di cielo in seta azzurro-del-re, nel quale si libravano ad ali spiegate serafini d’argento, recentemente ricamati dalla Confraternita dei Tessitori di Colonia per un antico piviale.
La sera, quando ogni cosa fu a posto, tutto si conciliò, s’affatò, prese unità. Lo zoccolo immobilizzò il suo azzurro, sostenuto per così dire, riscaldato dagli arancioni: che, a loro volta, si mantennero schietti, appoggiati e in certo modo attizzati che furono dall’incalzare dei blu.”