Archivi giornalieri: domenica, 13 aprile, 2008

La vida es un tango, y hay que saberla bailar. Capitolo uno.

 

Lo pensavo stanotte, alle due e quaranta minuti primi, mentre ballavo Libertango, versione dei Quintettango, in una stanza nascosta di un teatro di campagna prestato ai riti delle milonghe.

E lo pensavo mentre fuori pioveva, perché marzo sarà anche pazzo, ma aprile è indemoniato perché nel duemilaotto ha perso la Pasqua, e tutti pensano al ponte del primo maggio che, questa volta, funziona di più.

Lo pensavo dopo mesi in cui l’allegria è stata quella dei naufragi, la felicità degli incoscienti, la paura aveva spazio, ma non ha avuto tempo. E neanche io per scrivere, perchè dovevo finire quello che dovevo finire e riprendere quello che avevo perso, quasi tutto, tranne quattro chili, ma per ingrassare (e per allontanarsi dal vento) c’è sempre modo.

Lo pensavo mentre pensavo a come votare, come scappare agli anatemi di quelli che non vogliono che il voto si disperda, eppure un sacco di cose si disperdono ogni giorno, dai fluidi più intimi alle cose non dette, passando dalle intenzioni e dalle buone maniere, e senza ritirare le ventimilalire perché anche il via si è perso.

Lo pensavo, appunto, mentre mi facevo portare.

Visto che nel tango è la donna che viene guardata e che alza le gambe e fa gli adorni, ma le sue rotazioni e rivoluzioni sono solo attorno all’uomo, ed è solo l’uomo che guida e decide.

Metafora dei ruoli, di marte e venere, apparentemente perduti, vedi sopra.

Lo pensavo perchè, nel tango, non si può parlare.

La donna deve tenere il suo asse, e farsi condurre, in un abbandono di obbedienza attiva.

E’ maschilista? Si.

 

E allora pensavo alla sensazione di avere un cuore in pugno.

Il cuore di un altro, intendo, e senza essere necessariamente cardiologi, ma con il presentimento, tanto forte da essere realtà, di poterne fare di tutto.

Perché quel cuore è stato consegnato, magari prestato o inquadrato in un co.co.co., in una relazione a progetto, ma non importa: nel momento della consegna, la precarietà dell’amore è tanto forte quanto irrilevante, e il termine se c’è, non si vede.

Solo questo pensavo, mentre camminavo all’indietro come neanche un gambero potrebbe, visto che non ha le gambe (e visto che non ha gambe, dovrebbe chiamarsi gambeNo, non gambeRo) e non può fare gli ochos.

Al potere di avere il cuore di un altro tra le mani e farne di tutto:

accarezzarlo, accartocciarlo, leccarlo, tagliuzzarlo, riscaldarlo, congelarlo, farlo vedere a tutti, metterlo in una scatola o in una campana di vetro, sotterrarlo, buttarlo, santificarlo come una festa, oppure – in un chiasmo di amore – infilarlo accanto o al posto del proprio.

E poi alla soggezione di chi il cuore lo ha dato, con effetti collaterali che dagli occhi si propagano alla lingua, allo stomaco, all’inmezzotralegambe, alle ginocchia, ai polpastrelli delle dita dei piedi.

 

E se il tango è una storia d’amore di tre minuti, se il tango è una metafora della vita,

cosa succede quando il ballerino riaccompagna la ballerina al tavolo, lasciandola ad aspettare un altro giro e un’altra corsa?

e che ne sarà dei nostri cuori affidati?

 

Questo pensavo.

E pensavo che non c’è soluzione,

ogni tanto, solo una soluzione di continuità che, malamente, è il contrario di quello che sembra.

 

NO TENGAN MIEDO:

LA COSA SE PONE OSCURA, PERO NUNCA DEJA DE SER DULCE.

[continua] 

[forse]

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