insomma l’ho scritto.
il mio libro.
quello che volevo dire su una cosa di diritto, anche se è un poco a rovescio. lievemente anarchico o anarChiarico.
insomma è una parola che non mi piace, ma adesso mi viene da dire solo insomma, con quel tono da insomma, anzi da e-insomma, con una pausa sulla prima emme. insommmmma.
lo so che non risolve il problema della fame nel mondo, né della sete, né delle colonne di camion sull’autostrada tra firenze e bologna che trasportano generi alimentari fungibili (e vi risparmio il mio pensiero autarchico su acqua uova pasta e latte, che ognuno dovrebbe consumarsi quelli della regione propria di appartenenza, e possibilmente risparmiando sul packaging, ma ho detto che ve lo risparmio, bottttt).
però è il mio libro.
e l’ho studiato, l’ho pensato, ho passato giorni in biblioteca, giorni su fogli di carta e penna, giorni alla tastiera del computer che non suona, e anche notti.
a capire a capirmi a cambiare le parole le virgole gli spazi, e i tempi.
ad aspettare autorizzazioni, consigli, critiche, congiunzioni, avverbi e metafore.
a piangerci su, a stancarmici, a finire a ricominciare a finire a ricominciare a finire a ricominciare.
e poi l’ho spedito, e sono arrivate le prime bozze, e le ho rispedite, e sono arrivate le seconde bozze.
e ho contrattato sulla larghezza dei caratteri (si, fatemelo con un carattere dolce, deciso ma dolce, presuntuoso ma non permaloso, che però quando deve parlare parlasse e quando deve tacere si fermasse),
sulla larghezza dei margini (stretti per piacere, che noi abbiamo l’horror vacui, che ce ne facciamo di centrimetri e centimetri vuoti, tacendo delle foreste dell’amazzonia),
sul colore delle pagine (niente giallo paglierino, che fa doppia pi, bianco si bianco, non che io sia vergine, ma quello che importa è la purezza del sentimento, il ripetersi della passione non ne altera l’unicità e la profondità, e quindi bianco).
e poi l’hanno pubblicato,
anzi pubblicata, perché si chiama teresa
– cioè, ha un nome lungo che abbraccia funzione e rapporto,
ma per me è teresa, che poi non chiamerei mia figlia teresa, ma giulia o bianca o alice,
ma il mio libro si chiama teresa, forse perchè in principio era la tesi di dottorato,
o forse perchè “teresa ha gli occhi secchi, guarda verso il mare, per lei figlia di pirati penso che sia normale, teresa parla poco, ha labbra screpolate, mi indica l’amore perso a rimini d’estate… ”
e me lo hanno pubblicato.
e ieri, duemila telefonate, poi rottura delle acque, corsa ad aspettare il signor dhl all’università.
e poi sono arrivati i colli, che non erano 5 cani, ma 5 scatole.
ed è stato come a natale. o come a natale 15 anni fa. o come a un natale in un mondo parallelo o perpendicolare, con l’amore impacchettato.
come a natale l’attesa della mezzanotte.
ferma minuti immobili. con le forbici in mano. ma non ci riesco ad aprire la scatola. che la aprisse qualcun altro. no la apro io. solennità ridicola come il taglio della torta nuziale, che senso ha impugnare un coltello in due? lo sanno tutti che i coltelli ci si tirano a vicenda. e allora se mi sposassi la torta la prenderei con le mani e te la sbrodolerei addosso.
ma il mio tema è la scatola. aperta con il cuore in gola. con le gambe tremolanti e lo stomaco spappolato come un fegato.
e poi è lì, il parto della mia nuvola pesante e della mia nuvola pensante.
con il mio nomeecognome, e quellochevolevodirenerosubianco, garamondissimo….
e poi ho riso tutto il giorno, ma proprio tutto. e anche tutta la notte. finchè non mi sono addormentata.
e poi arriva santo stefano. che è oggi.
e chiamatemelo calo di tensione.
chiamatemelo che sto smettendo di fumare e sono nervosa.
chiamatemelo che voglio un tempo supplementare di baci o un goldengol.
ma è tutto il giorno che piango.
e sono ingovernabile come un paese indebitato con se stesso.
e ditemi che è normale,
ditemi che sono brava, che sono pazza e che sono tenera.
e soprattutto, ditemi che domani è un altro giorno.
mi sfogo, ma non affogo.
l’A.