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E = m(amma)c2

Se si potesse contare quante volte
ogni giorno
viene ripetuta la parola mamma
e poi
trasformare la parola in energia,
come fosse vento o sole,
avremmo petrolio d’amore
e zero conflitti.

Parto (verso un nuovo mondo)

I luoghi comuni della gravidanza e della maternità non sono gli ospedali, le cliniche, gli studi dei ginecologi.

Sono frasi sparse come le trecce morbide che la cultura pre-femminista ha subdolamente instillato nella mente di ogni donna.
Una di queste è, aprendo e chiudendo le virgolette:
“i dolori del parto si dimenticano”.
Sovente questa frase si accompagna a comparazioni del tipo (sempre aprendo e chiudendo le virgolette): “sono come i dolori delle donne (le dimostrazioni, n.d.C.), solo un poco più forti”.
oppure (se è presente un esponente del sesso maschile che proprio non riesce a frenare il dominio del proprio testosterone): “i dolori del parto si avvicinano alle coliche renali, che sono i dolori più forti che si possano sopportare” [aggiungo, incidentalmente, che io ho avuto anche le coliche renali e posso testimoniare che il travaglio è ben più tosto).

Ecco. Io posso dimenticare dove ho parcheggiato la macchina.
Posso dimenticare di fare una telefonata. O di comprare il fruttosio al supermercato.
Posso anche dimenticare il nome di un autore che ha pubblicato con sellerio tipo marco malvaldi, che trovo gradevole. Non mi piace quanto carofiglio, ma mi piace).
Ma non credo che dimenticherò mai i dolori del parto.
Né credo che siffatti dolori possano essere leniti con le tecniche di aiuto contro i dolori dimestruali, tipo assunzione di un fan (singolare di farmaco antiiiiinfiammatorio non steroideo), posizionamento di una borsa dell’acqua calda sull’addome, lamentele morbidamente accusatorie dirette al maschio di turno.
E credo che qualunque maschio dovrebbe avere la decenza di assumere sul tema lo stesso atteggiamento di Wittgenstein. Decoroso silenzio su quanto non si conosce.

Attenzione,
Mi rendo conto che una certa leggerezza sul tema sia sollecitata dal timore che il terrore del dolore (oibò che bella rima pomiciata) possa inibire la volontà generatrice (sulla quale Nietzsche avrebbe forse potuto soffermarsi con un saggio del tipo: la superdonna e la volontà di creazione).
Però anche la morte di babbo natale in fondo rende i bambini meno buoni (eppure ogni tot anni nella vita di un bambino, il suo babbo natale smette di esistere).
E poi diciamocelo, questa bivalenza delle donne in gravidanza/maternità: che quando parlano con una non-mamma è tutto rose e fiori: la gravidanza è il periodo più bello, e i capelli sono lucenti e la pelle morbidissima, e i dolori del parto si dimenticano appena finito, e la cacca del bambino puzza di yogurt….
E poi quando parlano con una gravida o con una neomamma tutto diventa buio: la gravidanza i chili e le gambe gonfie, i dolori atroci del parto, la fatica cosmica di tutte le attività immanenti nello status di mamma …(su questo tema mi riservo di tornare, prima, durante o dopo).

La verità vi prego sul dolore!
O, almeno, un poco di relativismo e di sincerità.

E allora vi racconto il mio parto.

Dopo 9 mesi (40 settimane per gli addetti ai lavori) di ormoni altalenanti,
di turbiniiiiii di emozioni,
di felicità e paura,
di gioia e lacrime,
(perché, attenzione, i nove mesi non servono solo alla creatura, servono alla futura mamma per abituarsi all’idea che non sarà più singolare, ma sarà un essere plurale; e questo è meraviglioso ma a tratti anche spaventoso; nessuno me lo aveva spiegato prima, e io passavo dalla gioia al pianto, al senso di colpa per il pianto alla gioia e poi di nuovo, con scorribande nella categoria: e come faccio a lavorare adesso che sono precaria come le foglie di Ungaretti???)

Dopo 9 mesi di corpo che cambia (altro che la canzone…)
Dalla 40 alla 42 alla 44 ad maiora…
Di tette che gonfiano di una due tre taglie (ma che, ahimé non fanno sesso a nessuno)…
Di disturbi variamente dislocati (tipo 6 mesi di nausea e alimentazione gelato alla nocciola e patate)…

Dopo 9 mesi di ansie per la salute del fagiolino, che poi diventa noce, mela, zucca, e cocomero…

Dopo 9 mesi di shopping mentale e 2 mesi di forsennato shopping rosa e bianco…

Dopo tutto questo e molto di più,
scade il cosiddetto termine.
E siamo qui, ad aspettare che succeda qualcosa.
Tipo la rottura delle acque, mitica come l’apertura del mar Morto.
La comparsa di segni misteriosi come i cerchi sui campi di grano.
Un dolore nuovo all’altezza dei reni, dello stomaco (c’è chi parla anche dell’orecchio sinistro…).
Con la paura che il cordone ombelicale si trasformi in una sciarpa di orrore.
E con la curiosità sempre di più, sempre più grande, come sarà?

La cosa incredibile è che gli ultimi giorni, venivo assalita dal dubbio (stimolato dalla tralatizzzzzzia frase: i dolori del parto si dimenticano) “e se non me ne accorgo?”

E invece me ne sono accorta.
Alle 4 la notte comincia una sensazione come da contrazione. Le contrazioni appunto.
La sensazione come di essere in una morsa. Forte da non dormire, ma non abbastanza forte da smettere di parlare e di ridere e di emozionarsi. Nei cosiddetti intervalli.
Si perché le contrazioni sembra che abbiano un cronometro.
ogni otto minuti tondi tondi.
e Marito con l’orologio in mano.

Faccio la splendida. Aspetto le sette di mattina (di otto minuti in otto minuti) e vado in clinica.
Con i miei piedi. Impiego mezz’ora per fare cinquecento metri, ma arrivo.
Vengo scrutata e tracciata (chi ha già dato, sa…).
La mia ostetrica (che nell’ultimo mese sapeva di me cose che neanche al prete avrei detto) mi comunica che eravamo indietro, non si può sapere ancora quanto ci vuole: “che vuoi fare, resti qui o vai a casa?”
Vado a casa, mi dico e dico.
Impiego almeno 45 minuti per fare i soliti cinquecento metri.

Cerco di riposare, cerco di mangiare, cerco di capire.

A un certo punto le contrazioni cambiano.
Più lunghe, più forti, più frequenti (breve rimembranza del concetto di frequenza, sepolto in una mattina di liceo di N anni fa).
Ogni 5 minuti una cosa da togliere il respiro per cinquanta secondi.
Sto seduta per terra appoggiata all’armadio. Ascolto Bach. Mi accorgo che l’Ave Maria più o meno dura quanto una contrazione. Ne approfitto.
Capisco che è impossibile non accorgersi che si sta per partorire.
Non riesco a muovermi.

Qualcuno mi dice che è tempo di uscire “sennò la fai qui”.
Col piffero che riesco a camminare. Taxi per fare cinquecento metri.
Clinica.
Ostetrica. Scrutamento e tracciamento. Sono in travaglio, oggi partorisci.
Lo sospettavo.

Mi danno la mia stanza. Verdeacqua. O piuttosto salvia. (non è il momento di giocare al pantone).
Mi rimetto per terra.
Passa un’altra ostetrica che si domanda come mai sto per terra se c’è un letto e una poltrona.
Non posso rispondere.

Il viso di mia mamma che mi dice: lo so che stai malissimo e sto malissimo perché non posso fare niente per aiutarti. Mamma non posso guardarti perché so che sai e mi dispiace farti sapere che hai ragione che sto malissimo e non so come fare.

La mano di G., che non mi lascia neanche un attimo. Infatti ti prego non lasciarmi perché non so cosa succede, non so se ci riesco, non so se ce la faccio.
Fammi il conto alla rovescia di ogni contrazione quanto manca alla fine, sempre 55 secondi.
Come quando ho fatto le montagne russe che non rifarò mai più, l’unico modo di farle era fare il conto alla rovescia di quanto manca alla fine.
Solo che le contrazioni sono un minuto si e uno no.
E non si sa quanto ci vuole.
E gli esercizi sulla respirazione che non servono.
E il verde salvia dappertutto.

Puttana Eva.
Tutta colpa di Eva e della maledettissima mela per cui l’uomo lavora e tu, donna, partorirai con dolore. E mi domando, ma come fa una donna (che ha partorito con dolore) a chiamare sua figlia Eva?

L’ostetrica che va e viene.
L’ostetrica che dice siamo a buon punto.
L’ostetrica telefona al mio ginecologo. Il mio ginecologo arriva.
“La vuoi l’epidurale?”
Fatemi quello che volete, apritemi, rigiratemi, ma io scoppio.

Flebo di zucchero.
Lettino.

Cambio di scena.
Sala parto e dintorni.
(allora sono vicina per davvero).
Penso ad Aprile di Moretti Nanni, arriva l’epidurale.
Mezz’ora di tregua.
Mezz’ora seduta, le contrazioni lontane lontane.
Riprendo energia. E’ dalle 4 che sono sveglia, è dalle 10 che soffro notevolmente, dalle 12 che impazzisco e sono le 17 e più….

Finisce l’effetto della dose di epidurale.
Ne vuoi ancora? Sei vicina. Molto vicina.
Non ne voglio ancora.

E qui il vero cambio di scena.
Sento di nuovo le contrazioni ma il dolore si trasforma.
Diventa un irresistibile desiderio di spingere.
Scendo dal lettino con un gesto relativamente atletico,
mi accovaccio per terra come in una canzone di Battiato Franco,
mi sento come la prima donna sulla terra,
tutt’uno con lo spazio cosmo (e non ho mai avuto ascendenze mistiche né panteiste, io….)
sento una forza incredibile dentro
e diventa la cosa più naturale del mondo,
come se avessi partorito da sempre,
come se tutte le donne del mondo stessero partorendo con me.
E spingo, accovacciata per terra come una leonessa.
Sento che è il momento più bello della mia vita, e infatti è il momento più bello della mia vita.
In quello spingere, in quella energia, c’è tutto un senso nuovo.

Una voce fuori campo mi dice che devo sdraiarmi che ci siamo, sennò cade per terra il mio amore.
Mi sdraio o mi sdraiano, una ultima spinta ed è fuori.
Una sensazione incredibile e un miracolo.
Mi appoggiano sulla pancia Lei che prima era dentro di me.
E ripenso a chi ha detto che la gravidanza è simile alla pazzia. La donna è una, diventa due, poi torna una ma solo apparentemente, perché un pezzo di cuore sarà sempre fuori da sé.

I dolori del travaglio non li ho dimenticati.
Ma non sono niente rispetto alla forza del parto.
Niente rispetto all’amore immenso, che non potevo nemmeno immaginare, di cui non mi credevo capace.

Perché scrivo tutto questo?
Per non dimenticarlo.
Per Bianca.
Per le mie amiche che stanno aspettando un bimbo e per quelle che lo aspetteranno.
E per ricordare un motivo in più per essere felice di essere donna ogni volta che essere donna è complicato.

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